VIAGGIO NELLA
MEMORIA
DI UN MONDO SCOMPARSO
Chi si dedica alla
scrittura conosce il travaglio che la precede e l’accompagna,
conosce l’idea che preme per divenir parola, il
pensiero che giunge ad essere dolcissima ossessione
e non si cheta se non quando l’inespresso che
abita la mente e l’anima, vede la luce.
La
gestazione di un romanzo è lunga e complessa,
costellata di incertezze e ripensamenti, specie se
di opera prima si tratta. Non fa eccezione Lampare
spente di Carmelo Duro (Ed. Prova d’Autore,
Catania – pagg. 107 – euro 9,00 – prefazione
di Melo Freni), ideato molto tempo fa, steso negli
anni Ottanta, ripreso e pubblicato solo oggi (…).
Nel
romanzo, ambientato negli anni Cinquanta, si pone
all’attenzione del lettore la gente del popolo,
povera, ma dignitosa, solidale, fondamentalmente
sana, generosa, per lo più gente di mare avvezza al
sacrificio e alla rinunzia, la cui vita si consuma
tra lo stretto respiro di ‘a vaneddha e la vasta distesa marina, fonte di sostentamento, ma
anche luogo misterioso di insidie.
“Chi genti! Valurusa e spiciali! … Nun nni
nasciunu cchiù comu a chista!”. Così esclama Santo, protagonista della storia
insieme a Ciccina, in un soliloquio – lo sguardo
perduto sul mare – ripensando al racconto che ‘u
zu Giuvanni (bel personaggio, bonario, pacato
dispensatore di saggezza) soleva fare di ‘u
marimotu che nel 1908 lo aveva colto al largo, “all’acqua
di lalonghi” insieme ad altri pescatori.
Gli
echi semantici di Lampare
spente rinviano ad un mondo scomparso, a uno
scenario che si è chiuso per dar luogo ad un altro
molto meno attraente, dove il senso del dovere e
quello di appartenenza, l’orgoglio e la
condivisione come fatti istintivi, si sono
indeboliti e spenti a causa di un progresso che,
orientato al benessere materiale, ha stravolto i
luoghi fisici, mortificando anche la creatività
quale espressione dell’esercizio delle risorse
interiori.
Senza indulgere a sentimentalismi, Carmelo Duro
racconta quel tempo per le future generazioni,
disegnando con tratti essenziali il paesaggio
naturale di allora, specchio del volto di Dio, ma
soprattutto indagando sugli scenari dell’anima
individuale e collettiva. Attinge a un patrimonio di
cultura popolare custodito nella memoria, acquisito
e sedimentato nel tempo nella sua S. Alessio e nella
Valle d’Agrò (le cui sorti gli sono state sempre
a cuore), nella quotidiana frequentazione delle
stradine, delle case, dei locali pubblici e di tutti
gli ambienti dove la sua più che trentennale
attività di giornalista lo ha condotto a una
osservazione attenta di uomini e cose.
L’opera
assume valore di testimonianza di altro modo di
vivere e di sentire pur nella trasfigurazione
artistica di luoghi e personaggi.
Centrale,
dunque, il tema della memoria in questo romanzo che
nasce da un atto d’amore di Duro verso la sua
terra e verso la sua gente antica: un omaggio alla
sua purezza e alla sua genuinità. Emerge un senso
di religiosità e una sorta di poetico stupore e di
riconoscenza per quell’eredità spirituale che
egli vuol tramandare insieme al dialetto, che è
musica anche quando riproduce ‘i ‘nciurii o espressioni apparentemente blasfeme. Il dialetto,
usato a tempo e luogo nel corso della narrazione,
restituisce un respiro di pensieri e di sentimenti
elementari, divenendo strumento indispensabile di
presa in diretta della realtà di quel microcosmo.
Scritto
da una mano maschile, il romanzo evidenzia la
sensibilità dell’autore che è costantemente
dalla parte di “lei”, sia che si tratti di Ciccina, creatura delicata, remissiva e indifesa del cui calvario
egli si rende interprete, sia che si tratti della
figura energica di ‘a zà
Carmela, alla quale guarda con ammirazione. E
non a caso, in una delle sue intrusioni nella
narrazione fa esprimere le proprie convinzioni a don
Sarinu, simpaticissimo personaggio, uno dei più
riusciti del romanzo, “l’intellettuale del
quartiere” che occupa interamente quel piccolo
capolavoro che è il terzo capitolo.
La
psicologia di Don
Sarinu e di Santu,
posti l’uno di fronte all’altro, si disegna
incisivamente in un serrato colloquio, ed è la
collera di quest’ultimo, cocciuto come ‘u
so’ sceccu, a imporsi sul calmo equilibrio del
primo, che usa il metodo della persuasione: ”
Santo, Santo, ricordati che le donne si debbono
sempre e solo amare. Eh! Caro Santo, devi sapere che
la donna è come un fiore che si coltiva, si irriga,
si aiuta a crescere, si cura, si coglie e riempie la
casa di profumo. Ricordati, Santo, le donne … non
si toccano nemmeno con una piuma …”.
L’autore,
che è alla prima esperienza di romanziere (ha
pubblicato “La Valle d’Agrò”
nel 1987, un libro di storia, arte e tradizioni di
otto Comuni del comprensorio di Taormina, e “Rodì
Milici” nel ‘97), supera egregiamente la
prova con questo romanzo ben ideato su base
socio-etno-antropologica, coinvolgente nell’unità
e nella solidità etica del suo tessuto narrativo,
ben strutturato nel ricorso a tecniche idonee e a
procedimenti retorici quale l’analessi nonché a
stilemi tipici del parlato popolare, come il
foderamento.
Tragico
è l’epilogo di questa storia che si consuma nell’animo
di Ciccina ma che vede la partecipazione corale della gente del
quartiere. Storia d’amore, di morte, di violenza,
di riscatto, tutta pervasa dalla calda umanità di
chi narra.
Anna
Maria Crisafulli
Gazzetta
del Sud – elzeviro – 4 giugno 2003