Sito di Carmelo Duro, giornalista e scrittore siciliano. 

 


" Lampare spente" Affresco neorealista


di Carmelina Ferraro

Lampare spente di Carmelo Duro è un affresco neorealista della Sicilia degli anni Cinquanta.
Ma è anche un autentico tributo che l’autore sente di dovere alla sua coscienza autoctona, al milieu a cui rapporta la sua personale esperienza umana. Pur avendo il suo fulcro nella vicenda di Ciccina e Santo,il romanzo di Duro assume la portata di un’opera corale nella dimensione direi quasi pratoliniana del quartiere. Il flusso narrativo risulta abilmente gestito in due sezioni di respiro uguale e contrario al tempo stesso.
Nella prima parte, con fare da esperto affabulatore, Duro orienta l’attenzione del lettore sul microcosmo rionale del paese: qui ciascuno, come le cinque dita di una mano, veste il ruolo più consono alla propria natura; questa viene scrupolosamente indagata dal Nostro fin dalle primissime righe. Un respiro proustiano di notevole levatura inaugura la seconda parte che attraversa simultaneamente la cronistoria dell’anima e della terra.
Prende avvio, attraverso le immagini nostalgiche di una memoria perduta e ritrovata, la rassegna dei ricordi: il matrimonio felice di Ciccina e Santo, l’odissea di zio Giovanni nello stretto in tempesta, il maremoto e il naufragio della vita sulla costa falciforme del messinese. Proprio questo naufragio assurge a metafora della condicio humana. In questo descrittivismo introspettivo si svela l’audace originalità di Carmelo Duro: egli ha saputo ritrarre la tragedia inascoltata dell’uomo comune che, ciononostante, non perde neanche per un momento il senso della propria superiore dignità. Lo spaccato antropologico che queste pagine prospettano riassume, nei dialoghi in vernacolo, il viscerale patetismo dell’uomo privato persino del sostegno provvidenziale e, nel corredo narrativo, la riflessione sui fatti del quotidiano universale.
La lezione assunta dalla tragicità greca si ammanta di una soffusa intensità cromatica, come suggerisce il titolo stesso dell’opera: le lampare si spengono in comunione panica con la vicenda dei protagonisti. La narrazione non necessita di una catastrophé per attuarsi: l’autore infatti insinua nel tessuto della sua storia (o meglio: delle sue storie parallele) un mal di vivere silenzioso e costante che corrode “in fieri” la patina di provinciale candore del quartiere. E Ciccina serba dentro di sé il seme di questo male, contro cui nulla può. La chiave di volta non è tanto la buona parola del patriarca o il dire didascalico di don Sarinu; con perspicace occhio intellettivo, l’autore la individua nel personaggio più umile.
La rassegnazione che pervade tanto le imprecazioni di Santo quanto l’orazione civica del dottore è la spia di un fatalismo che giunge a deprimere l’umana speranza e prelude la morte. L’immagine su cui cade il sipario è il perfetto fotogramma di una decadenza pirandelliana in cui intervengono elementi di straniata paradossalità: il riposo ultimo della donna-bambina quando nel vicinato si celebra la festa nazionale a suon di banda e la smorfia incredula del marito, condannato a espiare la sua tardiva affezione.
Gesualdo Bufalino, notoriamente mordace e acuto nei suoi giudizi sulla realtà, ebbe a insinuare: “E se Dio avesse inventato la morte per farsi perdonare la vita?”. Ebbene, l’esordio narrativo di Carmelo Duro non è solo il dono solidale di carta e carne fatto al genere umano (che l’autore ama intieramente); è un racconto che ha il merito di indagare, con sottile e maturo psicologismo, i movimenti dell’anima, riuscendo a contenere nelle parole l’insana deriva dell’esistere senza la pretesa di spiegarlo definitivamente.

Santa Teresa di Riva, 22 Maggio 2011

 

Libri

Prima edizione 1987

Seconda edizione 1995

Seconda edizione 1995
Prima ristampa 1999