Sito di Carmelo Duro, giornalista e scrittore siciliano. 

 


"  Lampare spente "


Un Duro esordio

Se è vero, come sostenne l’autore latino Lucano, che “ lo scrivere è quell’arte che può dipingere il pensiero per poter parlare agli occhi” l’opera prima di narrativa del giornalista Carmelo Duro può essere a pieno titolo annoverata fra i frutti divini di quell’arte. A proposito di questo romanzo dal titolo ossimorico si è parlato a ragion veduta del Verismo verghiano e del neorealismo cinematografico ma, a mio avviso, “Lampare spente” è di più. È una storia moderna, al di là delle apparenze e dell’ambientazione. Ci trasporta sì negli anni della miseria postbellica, ricostruendo pedissequamente attività lavorative e svaghi infantili di una comunità di pescatori di Marina di Vigoria, ma lo fa raccontandoci una vicenda umana, dolorosamente umana e, soprattutto, una tragedia intima, familiare, proposta con singolare sensibilità ed introspezione psicologica. La saggezza popolare, liricamente sviscerata attraverso le parole messe in bocca al personaggio dell’anziano zu Giuvanni, nella suggestiva metafora delle “cincu jitida d’a manu”, focalizza ed, al contempo, anticipa il nucleo di senso concentrato nelle successive vicissitudini dei protagonisti. Ed a ben guardare è l’intero coro composto dagli abitanti del paese il vero ed indiscusso protagonista dell’opera. Un personaggio collettivo che, come nelle più celebri tragedie classiche, non si limita a fare da cornice e da supporto alle figure principali ma è, esso stesso, portavoce di tutte le verità, anche di quelle meno ovvie e più latenti. Così, fra descrizioni puntuali, quasi documentaristiche, dei costumi e degli oggetti d’uso comune dei nostri corregionali di qualche decennio fa, scivola via il dramma personale di una donna e del rapporto dialettico di amore- odio col microcosmo cui appartiene. Attraverso le parole del dottore, alter ego dell’autore, si chiarisce come quella che sembra essere, ad un approccio superficiale, una semplice crisi coniugale altro non sia che la storia profonda, comune, attualissima di un problema d’ interrelazione fra l’io e la comunità. ‘ A vaneddha, infatti, luogo sociale e mentale più che spazio vitale dei paesani, è la responsabile del vizio che lentamente s’impadronisce della protagonista Ciccina e ne corrode l’esistenza, già tanto impalpabile, fino al lento spegnersi del finale, placido almeno quanto il “ Silenzio” che,  musicalmente, lo accompagna e tacito almeno quanto lo era stata la silenziosa ribellione della triste eroina. È proprio a questo punto che la vicenda non solo acquista un più ampio respiro, un respiro drammatico che varca i ristretti confini del rapporto di coppia, ma si fa anche un suggestivo profilo d’indagine sociologica ed etnologica. Dalla descrizione ambientale alla focalizzazione dell’individuale, per tornare nuovamente al sociale ma arricchito da una visione estremamente problematizzata: è questo, dal mio punto di vista, il percorso ciclico tracciabile all’interno della linea narrativa del romanzo. È questa la forza e l’originalità della vicenda narrata:  la storia di un amore tenero seppure brutale, quello fra  Santo e Ciccina, che si proietta, come se fosse riflesso da uno specchio deformante, sulla comunità del quartiere, chiusa, piccola, rassicurante ma anche claustrofobia, invadente, ciarliera. È una storia che ci appartiene, è la storia, forse, di tanti tentativi, riusciti e non, di fuga oltre il mare, verso terre non nostre, nella speranza di poter evadere da quel mondo isolano, di potersi sottrarre a quel lembo di terra martoriata. Cos’è, infatti, l’alcolismo di Ciccina se non la disperata ma, ahimè, utopica evasione da un problema duplice, familiare e sociale? E, in una visione più estesa, non si potrebbe leggere nel suo alienarsi dalla condizione infelice nella quale è costretta a vivere, il desiderio universale, squisitamente umano, di volare verso lidi sconosciuti, oltre la siepe leopardiana, bramosi d’infinito? Da questo punto di vista il finale un po’ sarcastico ed amarognolo, con quell’applauso idealmente tributato a Ciccina, ma solo nella fantasia  dell’avvilito consorte, ormai distrutto dal senso di colpa e dalla tribolazione, suona come un omaggio ironico e beffardo a tutti coloro i quali, come la protagonista, si sono allontanati dalla loro “ vaneddha” ribellandosi alla routine ed ai crucci della loro vita quotidiana. Perché dalla “ vaneddha” non si può scappare, non si può scappare mai. Anche quando ci illudiamo che sia rimasta lì ad attenderci, immobile, sinistra, silenziosa e paziente, anche se non lo sappiamo o fingiamo di non saperlo, essa ci segue dovunque. Perché non possiamo farne a meno, vive dentro di noi, nell’anelito continuo alle cose che ci appartengono, ai nostri colori, ai nostri sapori, alle nostre persone. In quel palpito del cuore che ci fa ritrovare a parlare di lei, a discutere con lei, in una “ corrispondenza di amorosi sensi” che sempre ci accompagna, conforto di madre amorevole, porto sicuro nell’oceano della solitudine.

Mara Di Maura         

Centonove - 1 agosto 2003


 

 


Libri

Prima edizione 1987

Seconda edizione 1995

Seconda edizione 1995
Prima ristampa 1999